Le pagine di questo succoso saggio riguardano una parte della nostra storia patria contemporanea che non ha mai avuto il rango di storia “accademica”; una storia mai studiata nelle scuole né nelle università, una storia relegata e nascosta perché, per ragioni meramente politiche e ideologiche, s’è preferito sacrificare la memoria di tanti italiani massacrati ingiustamente sull’altare della convenienza politica.
Il libro di Giuseppe Picazio si sofferma proprio sulla memoria delle vittime delle foibe.
Se apriamo un vocabolario di buon livello, alla voce “foiba” leggiamo:”s. f. [dal friulano foibe, che è il lat. fŏvĕa “fossa”]. In geografia fisica, tipo di dolina; in partic., nella regione istriana, grande conca chiusa (derivante da doline fuse assieme) sul cui fondo si apre un inghiottitoio”[1]. Dunque da un punto di vista geomorfologico la foiba è un’insenatura sotterranea molto profonda, dovuta a particolari fenomeni carsici e geologici. Purtroppo, il termine “foiba” è storicamente noto per ben altri motivi che vanno al di là del significato geologico.
La “foiba”, dunque, è una corruzione dialettale della parola “fŏvĕa” che significa “fossa”; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua nell’altopiano del Carso, tra Trieste e la penisola istriana e possono raggiungere i 200 (duecento) metri di profondità. In Istria sono state registrate più di 1.700 (millesettecento) foibe.
Le foibe furono utilizzate in diverse occasioni e, in particolare, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale per infoibare (“spingere nella foiba”) migliaia di istriani e triestini, italiani, ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista slavo propugnato da Josip Broz meglio conosciuto come “Maresciallo Tito”.
Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati: stime attendibili parlano di 10-15.000 (dieci-quindicimila) sfortunati.
Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro a ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il fil di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba trascinando con sé gli altri.
Il fenomeno, per il quale Ivan Matika, indagato dalla procura di Roma (con altre 81 (ottantuno) persone), iniziò nell’autunno del 1943 nell’entroterra istriano. Ebbe la sua massima intensità fino a metà giugno 1945, quando gli Alleati rientrarono a Trieste occupata dalle milizie di Tito, ma si protrasse almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell’Istria più vicina al confine e sottoposta all’amministrazione provvisoria jugoslava.
I crimini sui quali si indaga ebbero per vittime militari e civili italiani. Si calcola che i civili uccisi furono da 3 (tre) a 5 (cinque) mila. Non solo fascisti: erano presi
di mira tutti coloro che si opponevano al disegno dell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, compresi molti antifascisti, membri del Comitato di liberazione nazionale che avevano fatto la Resistenza al fianco dei loro assassini.
Il brutale odio anti-italiano che si è espresso nelle foibe non è certo giustificato dal bestiale odio antislavo che si era scatenato a lungo su persone colpevoli solo di essere slave, così come la stragrande maggioranza delle vittime delle foibe era solo colpevole di essere italiana.
Perché, sino a pochi anni fa, il dibattito politico e mediatico ignoravano il dramma dei nostri confini orientali? Perché, tranne che in pochi ambienti circoscritti, non si parlava delle foibe? Perché la stragrande maggioranza moderata, che oggi se ne riempie la bocca, taceva?
I grandi giornali di informazione non erano alle dipendenze di Mosca, il potere economico e politico non era nelle mani di Tito o di Stalin; non tutti gli attuali esponenti di centrodestra sono ex estremisti di sinistra convertiti o rinnegati, ma la maggior parte di loro militava già allora in formazioni politiche moderate; erano già in età più che scolare, sapevano leggere e scrivere e avrebbero potuto, dovuto, conoscere quella pagina atroce e parlarne.
I grandi italiani, quelli democratici, campioni di libertà e di resistenza, ne hanno sempre parlato, come ad esempio Leo Valiani, che, condannato dal tribunale speciale fascista anche per aver dichiarato di voler continuare a battersi per i conculcati diritti degli slavi, aveva votato più tardi contro il Trattato di Pace, per protesta contro l’ingiustizia subìta dall’Italia ai confini orientali, ingiustizia che il trattato sanciva. Ma nessuno li ascoltava, perché quell’Italia libera e civile, patriottica ossia non nazionalista, non interessava a nessuno.
Fino a pochi anni fa parlare delle foibe non “serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie, di quei crimini, di quegli anni.
Comunque sia, ben venga ogni occasione di ricordare le vittime; è bene che si parli di quella pagina terribile, che si conosca e si sappia la storia delle foibe. Usare oggi le foibe contro la sinistra italiana di oggi è indegno, come sarebbe indegno usare le leggi razziali fasciste contro Berlusconi o contro Fini, che avranno molte colpe ma non certo quelle delle leggi antisemite del ’38. usare i morti come un manganello è sacrilego e blasfemo nei loro confronti; i morti vanno tenuti sempre presenti nel nostro ricordo, accanto a noi, non dissepolti per manipolarli.
Leggendo questo libro risulta chiaro come sulle foibe l’Italia ha scelto, pavidamente, il solito quieto vivere. L’Italia è infatti stata, è oggi, e probabilmente sarà in futuro l’unico paese al mondo che non ha difeso, non difende e non difenderà in nessun modo la propria minoranza nazionale oltre i confini. L’unico paese al mondo che ben sa che i corpi di migliaia di propri cittadini giacciono insepolti nelle campagne di uno Stato confinante e che non ha neanche la forza di chiedere che vengano coperti da un pietoso monumento (gli speleologi friulani ben conoscono i siti in cui ancora si trovano immensi ossari esposti agli elementi in Slovenia e in Croazia). L’Italia è un paese in cui la cultura ufficiale ha violentemente negato per quaranta anni l’esistenza stessa delle foibe, per negare – tra l’altro – qualsiasi responsabilità (che non fosse di carità cristiana) nei confronti dei figli degli infoibati.
Il vero problema delle foibe non è allora assicurare alla giustizia gli assassini, ma l’incapacità degli italiani di reagire con un minimo di dignità nazionale, di democratico senso degli interessi nazionali, davanti alle vittime e ai superstiti di una enorme operazione di pulizia etnica, i dalmati e gli istriani. Si è arrivati al punto che agli infoibati si è negata, non solo giustizia (e questo si può capire, chi mai può processare un esercito vincitore?), ma addirittura la pietas. Fino a tutti gli anni Settanta le cerimonie funebri in loro onore sono state semi clandestine e disertate dalle autorità locali, bisogna aspettare il settennato di Cossiga perché un capo dello Stato deponga personalmente una corona sulla foiba di Bassovizza. La storia patria non ha mai considerato quei morti, “nostri morti”, ma li ha lasciati marcire, letteralmente, fuori le mura.
Ma quel che è grave è che si è arrivati a negare la memoria dei morti, per coprire la rinuncia a difendere (pacificamente, naturalmente) una comunità italiana di 350.000 (trecentocinquantamila) istriani e dalmati abbandonati allo sbando della propria identità di italiani esuli in Patria, per coprire la rinuncia a una politica estera autonoma e responsabile.
La storiografia, lo Stato italiano, la politica nazionale, la scuola hanno completamente cancellato il ricordo e ogni riferimento a chi è stato trucidato per il solo motivo di essere italiano o contro il regime comunista di Tito.
Il merito, dunque, di questo libro (e rispondo alla domanda iniziale sul nesso tra “italianità” e oggetto di questo saggio) è quello di ricordare che, ancora 60 (sessanta) anni fa circa, italiani furono massacrati per il solo fatto d’essere e di volere essere italiani. L’autore racconta quello che è successo, di quello che non si può scordare, perché non c’era una ragione, perché non c’era una colpa: si veniva massacrati, in modo barbaro e disumano, perché si voleva essere solo e semplicemente italiani e questo non deve mai essere dimenticato.
Quanto alle foibe come tema della “conversazione pubblica” italiana, l’auspicio è che tutti, storici ma anche insegnanti, intellettuali ma anche pubbliche autorità, addetti all’informazione ma anche scrittori, artisti, registi (siamo in un’epoca in cui i mass-media possono compiere grandi misfatti ma anche operazioni virtuose), sappiano andar oltre la miope convenienza politica dei pentimenti e dei revisionismi di comodo.
Questo è l’unico modo, oltretutto, di risarcire chi ha troppo patito perché gli si chieda anche di essere magnanimo e di rassegnarsi.
Con questo libro, dunque, l’autore ha molteplici meriti: quello del ricordo delle vittime, quello del far ricordare e quello di non far dimenticare.
Ciro Romano